martedì 20 settembre 2016

Cosa sappiamo del “patto segreto che scuote la politica veronese”

Questa mattina, come molti, sono rimasto incuriosito dalla locandina de L’Arena: “Il patto segreto che scuote la politica veronese”.


 Poi ho letto l’articolo del sempre ottimo collega Enrico Giardini, dove per altro non si parla di nessun “patto” ma di un avvio di contatti tra due eserciti “nemici”: quello di Flavio Tosi e quello dei fratelli Alberto e Massimo Giorgetti.

Come stanno quindi le cose all’interno del centrodestra veronese?

 Risposta semplice: una guerra tra bande.








Risposta elaborata: come al Palio di Siena, i vari fantini cercano la posizione migliore prima dello “start” e per farlo non esitano a giocare sporco, a tessere temporanee alleanze pure con le contrade rivali, perché l’obiettivo qui è indebolire il cavallo favorito.

I candidati del centrodestra ai blocchi di partenza 

Ora, in questa elaborata metafora, chi è il cavallo favorito? Diciamo che, se il centrodestra si presentasse unito a Verona, difficilmente avrebbe rivali. Per unito intendo: Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia, varie associazioni di area (come Battiti) e tosiani in libera uscita (come quelli vicini all’ex vicesindaco Stefano Casali). Quindi: chi riesce a ottenere la “nomination” dal centrodestra unito vince, o ha ottime possibilità di vincere.

E tuttavia a Verona, l’unità del centrodestra è una di quelle espressioni mitologiche che evocano visioni mistiche: tutti ne hanno sentito parlare almeno una volta, ma nessuno l’ha mai davvero sperimentata. Perché, anche quando si presenta formalmente unito (vedi 2007), il centrodestra nostrano porta in sé il germe della divisione, come si è visto rapidamente nel primo mandato di Tosi.
Ora siamo ad punto in cui Tosi è a fine corsa, ma continua a parlare come se fosse in campo per un terzo mandato, forse pure per tenere buoni i suoi (ma ancora per quanto?) 

 La Lega, per ragioni di visibilità e di rivalsa (contro Tosi), vuole essere la forza egemone della futura coalizione a Verona, tanto da aver trattato in questi mesi non con Forza Italia, ma con Battiti,  una associazione di (ex?) esponenti di Forza italia (o Pdl che dir si voglia) cui ha fatto annusare la possibilità di esprimere il candidato sindaco, per altro dopo aver gettato in piazza tre nomi dei suoi (per bruciarli?). Forza Italia,  da un lato avrebbe un candidato (Alberto Giorgetti, l’ha detto Berlusconi), dall’altro non sa che ne sarà di lei: con Parisi? Con Toti (e quindi succubi di Salvini))? E' un partito per altro diviso anche a Verona, pur con la tregua imposta dalla presenza di due coordinatori.  

Questo il contesto in cui inserire gli sviluppi degli ultimi giorni, con Salvini che dal palco di Pontida pare dare il benservito a Forza Italia. Ma quante volte, in passato, abbiamo scritto di rotture tra Lega e Forza Italia, salvo poi dover rettificare con qualche accordo dell’ultimo secondo? Le elezioni politiche del 2013 io me le ricordo ancora bene.  Chissà se in questo contesto è maturato il contatto tra Tosi e Giorgetti, oppure se semplicemente così qualcuno ha voluto leggerlo.


Tutta questo, a mio parere, è pretattica. Sono i fantini che si danno spallate prima dello start. E lo start sarà il giorno dopo il referendum sulle riforme istituzionali (di cui per altro non è ancora stata fissata la data). Da qui ad allora ci si gioca molto, se non tutto. Aspettiamoci tanti altri colpi bassi, "patti segreti" e quant'altro. A proposito, domani finisce l'estate. 


Sarà un autunno caldo.  


venerdì 15 luglio 2016

Castelvecchio-gate: un caso diplomatico

Sono passati più di tre mesi da quando, su un’isoletta ucraina al confine con la Moldavia, sono state ritrovate avvolte in teli di plastica le 17 tele rubate dal museo di Castelvecchio la sera del 19 novembre 2015.

La loro restituzione pareva essere solo una questione di tempi burocratici. Ma, a mano a mano che passano le settimane e i quadri non si muovono da Kiev, prende forma quello che somiglia, sempre più, a un caso diplomatico.

L’ultima rassicurazione è arrivata in settimana dal sindaco Tosi: “I quadri torneranno a Verona entro il mese di luglio”. Ma nessuno è in grado di sapere se il governo ucraino intende rispettare l’impegno preso. Si è mosso persino il presidente del consiglio Matteo Renzi, che nell’ultimo vertice Nato ha accennato alla questione con il presidente Petro Poroshenko, che avrebbe  dato ampie rassicurazioni in materia.




Il problema è che Poroshenko  non pare avere alcuna fretta di restituire i quadri, al momento in ostaggio – per così dire – al museo Kanenko della capitale Ucraina. E sì che non sono certo mancati i tentativi di ammorbidirlo. Tosi si è perfino recato a Kiev con in tasca una cittadinanza onoraria in virtù dei presunti grandi meriti di Poroshenko nel ritrovamento, anche se in verità l’operazione è stata resa possibile da una task force internazionale di cui la polizia di frontiera ucraina è stato solo l’ultimo terminale.


Ora il presidente ucraino pretende, come via libera per restituire i quadri, una cerimonia in cui sia presente anche il suo pari grado Renzi. Siamo insomma nelle mani di un controverso e spregiudicato leader politico, già protagonista della guerra con la Russia di Putin, desideroso adesso di capitalizzare, in termini di immagine e di prestigio, quanto più possibile da questa vicenda. Una vicenda che, nonostante il ritrovamento dei quadri e l’arresto della banda italo-moldava responsabile del colpo, non può ancora considerarsi chiusa. 

(dalla rubrica Il fatto della Settimana su Radio Adige)

mercoledì 13 luglio 2016

Quando il Banco Popolare rischiò il tracollo, visto dall'interno

Non molti anni fa, le azioni del Banco Popolare avevano superato i 20 euro. Oggi siamo appena sopra i due. Poiché a Vicenza si è passati da azioni (non quotate) da 62,5 euro a 10 centesimi, si può pure dire che qui a Verona è andata perfino bene. Ma era inevitabile che finisse così? Era inevitabile che tanti risparmiatori per cui la Popolare era sicura come una cassaforte finissero coi propri risparmi decimati, e non solo per il calo del prezzo delle azioni? E ancora, allargando un po’ il campo:  da dove nascono i tanti scandali bancari di questo Paese? E perché le nostre banche sono così deboli che, al primo battito d’ali di farfalla da qualche parte nel mondo, vengono travolte?


Sono tutti temi che leggendo  “Sabbie Mobili”, il libro di Fabio Innocenzi che del Banco è stato amministratore delegato fino al 2008, trovano parziali risposte. Un libro prezioso non tanto per i motivi che l’hanno ispirato - è evidente come Innocenzi punti anche a riabilitare il suo nome dalle vicende controverse che l’hanno visto protagonista, su tutti il caso Italease - quanto per lo squarcio che apre su un mondo di cui è molto complicato conoscere i dietro le quinte.  



Innocenzi è un banchiere dalla carriera precoce e prodigiosa. Arriva (anzi, torna, visto che è veronese) a Verona nel 2003 da Boston, dove dirige una società di investimenti per conto di Unicredit. Il presidente del Banco, allora come oggi, è l’avvocato Carlo Fratta Pasini, che cerca un manager capace di “sfruttare le opportunità del mercato” per una popolare che, fino ad allora, si è limitata a raccogliere depositi e prestar soldi. Insomma a fare la “banca del territorio”.


La prima grande opportunità è l’acquisizione di una nobile decaduta, la Banca di Novara. Un’operazione festeggiata dal mercato che però si porta in pancia un seme avvelenato: Italease, di cui Verona diventa prima azionista. Innocenzi mette a dirigere la società di leasing tal Roberto Faenza, un manager “ereditato” da Novara che lui stesso aveva precedentemente accantonato, e con ottime ragioni.


Per farla breve: con Faenza, Italease cresce a dismisura fino a venir quotata in Borsa, ma questa crescita è pompata da derivati speculativi. La truffa viene scoperta e Faenza, che coltiva amicizie pericolose coi “furbetti del quartierino”, arrestato. Innocenzi finisce indagato per aggiotaggio (e buona parte del libro è sul processo kafkiano che ne segue e che si concluderà, molti anni dopo, con un’assoluzione piena) ma, quando fallisce un’operazione di messa in sicurezza di Italease, il Banco rischia di venir travolto. A quel punto Innocenzi, per “placare i mercati”, si dimette. Al suo posto, arriva il rassicurante Pierfrancesco Saviotti, l’uomo che oggi sta conducendo in porto l’operazione di fusione con la Banca Popolare di Milano per dar vita al terzo gruppo italiano.


Una prima facile risposta ai guai del Banco potrebbe quindi essere: è colpa di Innocenzi. Lui ha messo Faenza in Italease, lui non si è accordo di quel che stava succedendo se non troppo tardi. C’è una parte di verità in tutto questo, ma solo una parte. Se fosse tutta e solo colpa di Innocenzi, non si spiegherebbe perché la sua carriera sia continuata brillantemente dopo il Banco: prima a capo della divisione Nordest di Intesa-San Paolo, poi a dirigere la filiale italiana del colosso svizzero Ubs.


Leggendo i suoi resoconti, Innocenzi appare come un pesce rosso in una vasca di squali. Se alla fine verrà ingoiato da Italease, è pur vero che era già stato azzannato da Fiorani (l’acquisizione della Popolare di Lodi si rivelerà “sanguinosa” per il Banco) e aveva scampato per un pelo il morso degli immobiliaristi romani (solo all’ultimo secondo il Banco si ritira da un’operazione che sarebbe stata probabilmente disastrosa: l’acquisizione della Banca Nazionale del Lavoro).


Il mondo delle banche italiane, come emerge dal libro, ha poco a che fare con l’economia, e moltissimo con la (bassa) politica: la tutela di interessi, posizioni, rendite. Quando due banche si fondono, pare che il problema principale sia la governance: quanti consiglieri espressi da chi (e per questo i cda sono così elefantiaci), come spartirsi i manager. Insomma, come andare avanti come prima, nel momento in cui tutto cambia. Se in questa atmosfera già tossica si inserisce il governatore della Banca d’Italia (Fazio) che, invece di fare l’arbitro imparziale, mette insieme un plotone di pretoriani dal dubbio pedigree nell’anacronistica difesa dell’”italianità”, la frittata è presto cucinata. Sarà in questo clima che matura la folle acquisizione per nove miliardi cash di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi, e che oggi rischiamo di pagare tutti.


Nel libro di Innocenzi, la politica del governo  resta sullo sfondo, un distante rumore di fondo. Di certo, visto dagli occhi di un banchiere che governa miliardi, è molto chiaro il perché il Paese faccia una tale fatica a attrarre investimenti: poca trasparenza anche (e soprattutto) dagli organismi di controllo, cinica furbizia elevata a metodo di sopravvivenza se non di prevaricazione, una giustizia bizantina, l’abitudine di nascondere la polvere sotto il tappeto rimandando impopolari ma necessarie decisioni. Così oggi le nostre banche sono fragili perché, quando potevano essere aiutate (per esempio ricapitalizzandole con soldi pubblici), abbiamo finto che non stessero poi così male. E oggi rischiano di finire nel baratro, e noi con loro.

Poi, anche quando il Titanic inizia a imbarcare l’acqua dopo la collissione con l’iceberg ci sono sempre quelli che continuano a ballare sul ponte. I banchieri, nel libro di Innocenzi, non ne escono bene. Spesso la loro principale preoccupazione è quanti soldi prendono (spesso si tratta di milioni), come possono prenderne di più, quanto possono incassare vendendo le stock option e un altro variopinto campionario di piccole preoccupazioni terrene. Nel sottotitolo del libro Innocenzi si chiede: “Esiste un banchiere perbene?”. La sua risposta sarebbe scontata: “Si, esiste e sono io”. Non so se mi spingerei a tanto, ma anche fosse vero, sarebbe l’eccezione che conferma la regola.

giovedì 23 giugno 2016

Aspettando Brexit: cosa dicono i nostri accusati di "rubare" il lavoro agli inglesi


Qualche giorno fa ho scritto un articolo su alcuni miei concittadini che lavorano in Inghilterra. Con la scusa di parlare del referendum su Brexit, ne è venuto fuori un piccolo affresco di cosa vuol dire essere emigrati da quelle parti di questi tempi. Molto materiale mi è rimasto fuori, purtroppo ma - mentre aspettiamo di sapere se vincerà il "leave" o il "remain" - riporto qui di seguito alcune delle risposte più significative, tra cui quella a una domanda chiave: perché gli stranieri trovano lavoro in Inghilterra più facilmente degli stessi inglesi? 




Vedo preoccupazioni emotive abbastanza simili a quelle che animano i dibattiti in italia, con una differenza: il Regno Unito ha una storia di immigrazione molto diversa dall'Italia (colonie, imperialismo), e questa entra in conflitto con la struttura sociale inglese, che per certi versi e' molto più rigida di quella italiana: tra inglesi c'e' molto meno mobilità sociale che tra stranieri. Per fare un esempio: in Inghilterra è più facile che un italiano nato da una famiglia di operai e laureatosi in italia consegua un dottorato e diventi un professore universitario in Inghilterra, piuttosto che un figlio di operai inglesi consegua una laurea in una università di prim'ordine inglese. Secondo me l'immigrazione e' un problema in Inghilterra che inasprisce le criticità della propria società.   
Paola Zanotto, 30 anni, architetto di Verona, lavora a Londra 

Se riesco a comprendere il punto di vista degli inglesi che voteranno per la Brexit proprio a causa dell’immigrazione? No. Sono proprio curioso di vedere chi li rimpiazzerebbe nei loro non sempre felici ruoli lavorativi. Le multinazionali che sfruttano economicamente l Inghilterra dovrebbero preoccupali più della gente che la tiene in piedi. 
Michele Montolli, musicista di Verona, vive a Londra

Se potessi votare al referendum sulla Brexit sinceramente sarei molto in dubbio. Se guardo la situazione dal mio punto di vista sarebbe un no, da un punto di vista di uninglese voterei per un si anche se con molta paura di una possibile crisi, sono anche convinto che se dovesse succedere gli inglesi saranno in grado di riprendersi in un periodo brevissimo.
Enrico Giacomini, 27 anni di San Bonifacio, appena arrivato a Londra 

 Non ho ancora letto una singola tesi relativa all'immigrazione che non sia stata confutata con forza da un serio fact checking. Tuttavia è facile anche notare come che l'immigrazione sia un tema che la popolazione britannica sente con molta intensità, in particolare nelle zone più economicamente depresse del paese. Non credo che i passati governi abbiano fatto uno sforzo significativo nel far capire come l'immigrazione sia una risorsa per il Regno Unito. E' vero che il servizio sanitario pubblico (NHS) è sotto pressione e con risorse molto limitate, ed è ancor più vero che il mercato immobiliare londinese è inaccessibile per la maggioranza dei giovani lavoratori. E' invece poco verosimile che siano i "meravigliosi [...] ragazzi italiani che lavorano nella City o nei ristoranti" (cit. Nigel Farage)' a mettere sotto pressione l'NHS; credo anzi che le loro tasse aiutino a sostenere un servizio di cui al momento hanno meno bisogno rispetto alla fascia più anziana della popolazione.
Fabio Viola, 32 anni, Padova, ingegnere, lavora a Londra 

 Essendo immigrato non riesco a capire perché gli inglesi si puntino di voler uscire solo per il fatto dell'immigrazione, non mi sembra giusto, insomma loro importano molti immigrati qualificati, guarda il mio caso, io mi sono istruito ed educato in Italia e poi mi sono trasferito in Inghilterra per lavorare.
Luca Pasetto, 25 anni, di Soave, infermiere da due anni in Inghilterra.

Se faccio un confronto con gli immigrati in Italia e gli immigrati qui c'è un abisso enorme. Gli immigrati in Italia (la maggior parte) sono fuori regola senza documenti senza residenza e per tirare avanti rubano e spacciano droga, poi ci sono anche quelli onesti che cercano di fare una vita dignitosa rispettando le regole MA a differenza di qui in Inghilterra NON vogliono assolutamente integrarsi con la nostra società e infatti non vedrai MAI in Italia un gruppo di persone di nazionalità mista perché ognuno sta con i propri connazionali e purtroppo in Italia si tende a privilegiare noi piuttosto che gli stranieri (anche se poi nemmeno noi siamo privilegiati anzi ultimamente la situazione è capovolta e questo crea soltanto che razzismo incondizionato). Qui in Inghilterra ho trovato la situazione completamente opposta e ho visto di persona che la maggior parte delle persone che si sono trasferite qui vogliono lavorare voglio far famiglia vogliono contribuire all'interno della società e cercano di integrarsi chi meglio chi peggio ma comunque come se fossimo tutti dello stesso posto. Se prendo un taxi e l'autista è pakistano non mi sento in agitazione o che devo stare attento quando purtroppo in Italia spesso e volentieri mi sono trovato in difficoltà o addirittura in pericolo con molte persone che venivano dalla stessa parte del mondo. In Inghilterra c'è un miscuglio di nazionalità che poi si incastra perfettamente mentre in Italia ognuno sta per i fatti suoi e gli italiani inevitabilmente fanno di un erba un fascio (se la maggior parte delle persone provenienti dal Marocco non vogliono integrarsi con la nostra cultura poi al primo episodio di un marocchino che ruba o addirittura uccide, tutti automaticamente associano tutta la comunità a quel singolo elemento). 
Daniel Grandesso, veneziano, barista, lavora a Leeds 

Molti inglesi non accettano gli immigrati per il fatto che “rubano” il lavoro ai nativi, ma ignorano il fatto che ormai non possono fare più a meno degli immigrati. Non conosco bene altre situazioni, ma dove lavoro io circa il 30% del personale è straniero, ed hanno assunto stranieri perché è difficile trovare inglesi qualificati nel mio settore, il modo di lavorare di uno straniero è differente. Lavorando sia con inglesi che con stranieri, mi sono accorta che gli inglesi sono meno produttivi, non fanno un’ora di straordinario, fanno il minimo indispensabile. Un’azienda che vuole crescere quindi cercherà di assumere persone che lavorano sodo e se queste sono straniere non si farà certo problemi
Chiara Boldo, 28 anni, Marano di Valpolicella, lavora a Leeds 

Gli immigrati coprono posti che gli inglesi non vogliono o non sono predisposti a fare (es. fra tutti il lavoro di infermieri e ostetriche)
Marta Barlese, Treviso, lavora a Leeds in un'azienda di import di prodotti italiani 

domenica 12 giugno 2016

Lost in civilisation: ovvero, uno scioccante viaggio (di nozze) in Giappone


Ho visto la fine (o il fine) della civiltà, e sono tornato per raccontarlo.  

Ehi, non è mica che perché sono stato due settimane in Giappone adesso pretendo di aver capito tutto.

Tipo sta volpe di pietra: cosa vorrà dire? (tempio di Inari, Kyoto)

Diciamo che ho graffiato un po’ la superficie. Con Carlotta abbiamo percorso circa 1500 chilometri con treni, autobus, biciclette e pure con le nostre due paia di gambe. Abbiamo visto città enormi e piccolissime, paesaggi da cartolina e meno. Abbiamo intravisto la sponda ovest dell’oceano Pacifico e, una volta - da lontano, di sfuggita -  anche il monte Fuji. 


Però l'abbiamo visto molte volte in tv!

Soprattutto, abbiamo osservato i giapponesi provando a intuire qualcosa di loro, con tutti i limiti del caso, a partire da quelli linguistici visto che so dire due parole in giapponese e non ho imparato neanche un ideogramma.

La svastica, invece, è un simbolo buddista. 

Giappone, quindi. Un paese in stagnazione da oltre dieci anni, no? Per carità, sarà pur vero che loro sono fermi. Sarà. Ma più avanti di così dove vogliono, dove possono andare? E’ immaginabile, auspicabile proseguire su questa strada? I cinquecento chilometri che separano Tokyo da Osaka sono una successione di palazzi, fabbriche, infrastrutture, e qualche timida risaia. Tornato in Italia, la pianura Padana mi è sembrato un territorio vergine, quasi inesplorato.

Osaka, il quartiere di Dittonbori 

E’ un po’ quello che mi chiedo sempre quando capito in qualche grande città dell’Asia, dove la corsa allo sviluppo sociale, economico, demografico non si fa riguardi di conservare alcuna traccia di passato o di paesaggio. Ma rispetto a Bangkok o Shanghai (per citare quelle che ho conosciuto di persona) Tokyo è di un’altra dimensione: è il futuro che si fa presente, è un romanzo di fantascienza sotto i tuoi occhi, è utopia realizzata e Blade Runner allo stesso tempo.

Shinjuku, Tokyo 

Una megalopoli di14 milioni di abitanti che si regge su un assunto: tutto deve funzionare - e funziona - alla perfezione.
Trainspotting alla stazione di Ochanomizu, a Tokyo

Ci si sposta prevalentemente su treni che spaccano il secondo, si arriva in stazioni da cui passano anche tre milioni di persone al giorno. Le stazioni sono il cuore pulsante di Tokyo e del Giappone più in generale, spesso uscite dalla matita di architetti visionari e senza limiti di budget, vedi Kyoto, vedi Kanazawa. 
E che dire della stazione dei bus di Nagoya?

Nelle stazioni, la gente ci passa buona parte del suo tempo e quindi si trovano qui i migliori centri commerciali e i migliori ristoranti.

I mitici piatti finti dei ristoranti giapponesi

(A proposito di ristoranti, un piccolo inciso gastronomico: una sola volta, in tutto il viaggio, abbiamo mangiato sushi, ovviamente mille volte più buono di quello che si trova da noi, ma pur sempre sushi, perché la cucina giapponese è straordinaria in tutte le sue forme: ramen, omen, tempura, sukiyaki, una scoperta continua. La colazione, a base di riso, pesce, tofu bolllito e budino ai funghi è invece uno shock culturale. Cappuccino e brioche tutta la vita).

Pesce a colazione vicino al mercato di Tsukiji, Tokyo

Torniamo alle stazioni: una volta usciti  (e se non si imbocca l’uscita giusta può essere un problema)  si attraversano strade in compagnia di migliaia di persone ogni volta che scatta il verde, in quartieri grandi ognuno come città dove svettano grattacieli, cavalcavia, ponti. Moltitudini in continuo, incessante, ordinato movimento. Ma non ho visto una sola macchina parcheggiata per strada. Non dico parcheggiata male, in doppia fila. No, proprio nessuna in strada. Come non ho visto una corsia preferenziale, né una pista ciclabile.

Takayama

I marciapiedi sono pulitissimi, eppure non si trovano cestini. Se bevi una bottiglia d’acqua o di Pocari Sweat (la Gatorade locale che mi porterò sempre nel cuore) ti porti dietro il vuoto. Non ci sono mozziconi,  nonostante ci siano distributori di sigarette ovunque (ma non provate a chiedere cartine per farvi le sigarette: vi guarderanno come i peggiori drogati). Fumare per strada è proibito, ma si può fumare nei locali e nei ristoranti. Il mondo alla rovescia, ma in fondo ha un senso: la strada è di tutti, il bar solo di chi ci vuole andare, accettandone le regole.



Le camere d’albergo a Tokyo sono piccolissime (ci sono anche gli “hotel capsula” ma non li ho provati, ero pur sempre in viaggio di nozze), ma in proporzione più grandi degli appartamenti in cui vivono i suoi cittadini. Per questo ci mettono piede solo per dormire o espletare le funzioni corporali in quei cessi con bidet incorporato cui fai così presto ad affezionarti (se li volete in casa vostra, sono questi qui).
La prima cosa che ti chiedi in un ryokan: bella la stanza, ma il letto dov'è?


Colazione, pranzo e cena la fanno fuori. Fuori casa  fanno il bagno, negli onsen, rigidiamente divisi tra maschi e femmine e vietati a chi ha i tatuaggi. Qui i tatuaggi sono sinonimo di Yakuza, la mafia locale. Fuori casa si divertono, per così dire: ci sono interi palazzi pieni di slot machine, di stanzette in affitto a ore  per il karaoke.

In treno a Tokyo (non nell'ora di punta)

“Quelli di Tokyo sono pazzi”, ci diceva un ragazzo incontrato nella cittadina di Matsumoto. Lui nella capitale ci ha vissuto per un po’, ha pagato un affitto spropositato per vivere in un buco, si è sottoposto al quotidiano rituale di pigiarsi in metropolitana per raggiungere l’ufficio e entrare in un vortice di lavoro e relazioni sociali fatte esclusivamente di colleghi, prima di tornare nella propria tana per dormire. Ha capito che non faceva per lui e invece di suicidarsi come tanti suoi concittadini  se n’è tornato nella sua cittadina sui monti e ora importa birra dall’Oregon.

Il castello di Matsumoto 

Quanto pregano i giapponesi. Tra due grattacieli vetro e acciaio ti accorgi che è sopravvissuto un tempio. Ci passa davanti la signora con la borsa della spesa, la studentessa in divisa, il burocrate in giacca e cravatta. Si fermano, gettano una moneta nell’offertorio, recitano una rapida preghiera e poi via. 
Asakusa, Tokyo
“Un proverbio giapponese dice: nasciamo shintoisti, ci sposiamo cristiani, moriamo buddisti”, mi ha raccontato Tracy,  una californiana che ha un locale chiamato Pink Cow. Se passate per Rappongi - uno dei quartieri della movida di Tokyo - fateci un salto perché Tracy, che era sposata con una rockstar giapponese (e qui dovrei aprire un capitolo sui fenomeni “big in Japan”, un’altra volta), è una miniera di aneddoti. Come questo: dei suoi amici (non preti!) a Tokyo hanno aperto una chiesa. Pare renda di più di una palestra o di una pasticceria. E non perché i giapponesi siano cristiani: è che amano i matrimoni all’occidentale.






Anche a Kyoto, che sta al buddismo come Roma e Gerusalemme stanno alla cristianità, nei templi non ci si vergogna di coniugare la religione con il business. Ho visto negozi di souvenir all’interno di edifici tutelati dall’Unesco, distributori automatici dove si possono acquistare bibite e preghiere. 












Poi, certo, basta spostarsi un po’ dalle comitive di ragazzini in gita scolastica e dalle ragazze vestite in kimono per trovare luoghi di autentica spiritualità, pagode spoglie e ricoperte di tatami dove sedersi a gambe incrociate a meditare, circondate di  foreste di cipressi e bambù e giardini Zen in cui vorresti raggiungere il Nirvana. Sono due aspetti che convivono, fianco a fianco.

Il tempio di Kodai-ji, Kyoto 

Un’altra cosa che colpisce viaggiando in Giappone è la sensazione che non ti possa mai accadere nulla di male. Il tuo sguardo non ne incrocia mai un altro che tradisca cattive intenzioni. Non si vedono crocicchi sospetti, non si vedono persone alterate. Mai hai la sensazione che qualcuno voglia fregarti. Il crimine pare assente, non tanto e non solo dalle strade, proprio dalla testa delle persone.

Ospitalità in Giappone vuol dire
innanzitutto un tazza di te verde


E credo che noi italiani, abituati come siamo a venire trattati a pesci in faccia da dipendenti di servizi pubblici spesso pagati con le nostre stesse tasse, non riusciremo mai ad abiutuarci al rispetto in cui si gode in Giappone, in qualunque situazione. L’inchino del capotreno prima del controllo dei biglietti, quello dei commessi quando entri o esci da un negozio, quello del portiere dell’albergo. In due settimane di viaggio ho trovato un solo stronzo: un tassista (e questo vorrà pur dire qualcosa).





Se siete arrivati a questo punto, magari vi chiederete: va beh, interessante ‘sto Giappone, ma non potevate andare in luna di miele in Polinesia o alle Maldive come tutti? Beh, sappiate che stavamo per prendere un volo interno di tre ore per quelle isole tropicali dove si nascondevano i famosi “ultimi giapponesi” che non sapevano della fine della guerra. Pare siano bellissime e incontaminate: solo che era stagione delle piogge e mentre eravamo noi là ci passava un tifone. In un’altra località di mare, più accessibile, chiamata Ise, c’era proprio in quei giorni il G7. Non volevamo correre il rischio di incontrare Renzi in spiaggia a diecimila chilometri dall’Italia.

Giardini Kenrokuen, Kanazawa

Il Giappone è uno di quei posti dove la bellezza non è, ma accade. Nella mia top ten delle cose fatte là c’è la visita a un museo a Kanazawa dove non c’è esposto assolutamente nulla di nulla.  Passeggi in queste stanze spoglie, lineari, in cui si succedono ambienti aperti e chiusi, con uno specchio d’acqua geometrico, sale di lettura e meditazione. E’ una sorta di monumento al grande filosofo Zen Suzuki, che in un suo libro racconta questa bella storiella.

Momento Zen 

In un traghetto che attraversa un lago, un samurai un po’ fanfarone  si vanta delle sue doti con la spada. I passeggeri pendono dalle sue labbra, eccetto un uomo che se ne sta in disparte, immerso nei suoi pensieri e che, tuttavia, porta proprio due spade alla cintola. Il samurai è un po’ seccato dall’indifferenza dell’uomo, così gli chiede: “E tu, che hai due spade con te, non dici nulla?”. Questo alza appena gli occhi e risponde: “Forse pratichiamo la stessa arte, ma seguiamo due scuole completamente diverse”. “Ah sì? E quale sarebbe la tua scuola”, chiede il samurai. “Tu pensi a sconfiggere il tuo avversario, io a non essere sconfitto”, è la risposta.  “E quale sarebbe la tua tecnica di combattimento?” “Quella di combattere senza la spada”. A questo punto il samurai, punto nell’orgoglio, sbotta: “Tu quindi vorresti sfidarmi senza usare la spada?”. “Va bene”, risponde l’uomo. Il samurai scoppia a ridere fragorosamente e dà appuntamento all’uomo sulla riva per il duello. L’uomo gli chiede: “Non vorrei attirare troppe attenzioni. Ti va se chiediamo al nocchiero di attraccare su quell’isoletta deserta, per non dare troppo nell’occhio?” “Nessun problema”, risponde il samurai. Il traghetto si avvicina alle sponde dell’isoletta, il samurai salta giù ma proprio il quel momento l’uomo ancora a bordo si appoggia al molo e spinge la barca al largo. Il samurai se ne resta solo sull’isoletta, sconfitto senza nemmeno un colpo di spada.

Arrivederci Giappone, che mi hai insegnato più di quanto abbia visto.
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Bonus: Carlotta's version. Ovvero: tre inarrivabili lezioni di civiltà dal Giappone:

  1. Ospitalità. Anche se i turisti che vanno a curiosare nel loro paese ai giapponesi non piacciono particolarmente, una volta che gli capitano tra i piedi non li trattano come polli da spennare, sono ospiti, trattati con garbo e cortesia: la tazza di té di fronte alla cascata in uno dei più bei templi buddhisti del mondo l’ho pagato allo stesso prezzo del giapponese inginocchiato sul tatami a un metro da me, così come il servizio di lavanderia in albergo (era gratis), o il treno. Anzi quest’ultimo meno, perché il Giappone, acquistandolo solo online prima della partenza, lo puoi girare in lungo e in largo in sui binari (su qualsiasi treno a parte il collegamento diretto e velocissimo Kyoto Tokyo) con un unico pass a prezzo agevolato.
Giapponesi, vi chiedo scusa e mi vergogno per ogni cafonata che avete subito qui.
Merenda al tempio di Nanzen-ji, Kyoto

  1. Pulizia. Sul treno più veloce del pianeta così come sull’ultimo trenino locale a gasolio, al tempio più noto e frequentato di Tokyo così come in un rifugio semi-abbandonato in montagna, i bagni sono puliti, e a fianco al wc oltre alla scorta di carta igienica, c’è uno spray disinfettante per sanificare la tavoletta e sedercisi in tutta comodità, magari premendo anche il tasto con le note musicali per coprire con una melodia rilassante i ruomori meno piacevoli. Un sogno per chi è abituato suo malgrado a farla con giacca e borsa in mano, in un equilibrio precario che neanche Philippe Petit su un cavo tra due grattacieli.

  1. Trasporti. In Giappone non c’è traffico e non ci sono auto parcheggiate anche nelle città dove i mezzi pubblici non sono capillari come nelle metropoli. E veniamo a loro, i mezzi: il Giappone è il paradiso del pendolare e del backpacker. Su tutti gli autobus, che arrivano frequenti e puntualissimi, le fermate sono indicate bilingue, si entra dalla porta posteriore e si scende da quella anteriore. Il biglietto lo si paga comodamente alla discesa passando l’abbonamento, o la carta di credito (la loro Suica card), o  inserendo il contante in un conta monete che verifica la tariffa (in caso non abbiate le monete è a disposizione un comodo cambia soldi) il tutto senza che l’autista debba staccare le mani dal volante. Poi loro, i treni dei sogni, quelli che arrivano al secondo 00 e ripartono entro il secondo 30, quelli che ti portano dovunque, quelli che a un metro dall’uscita del marciapiede della stazione viaggiano già ai 200 all’ora. Quelli che poi torni in Italia quando finiscono le scuole, e per fare due chilometri aspetti 20 minuti e ne trascorri altrettanti in piedi prima di arrivare alla meta. Ah caro Giappone, esisiti davvero o è stato solo un bel sogno?